Rimborso medici specializzandi prescrizione dies a quo

  • Responsabilità civile

Indennità specialistica e risarcimento danni al Medico. Interessi compensativi e sospensione dei termini processuali nel periodo feriale

Rimborso medici specializzandi prescrizione dies a quo

Ritengo utile riproporre una causa da me affrontata in quanto riguarda un tema ancora al centro di numerose discussioni e potrebbe rappresentare uno spunto per chiunque si trovi in una situazione analoga a quella della mia assistita in questo giudizio. Menzionerò anche tutte le questioni di carattere processuali o di merito che si sono verificate in corso di causa, in quanto rappresentano anch’esse vicende emblematiche atte a chiarire numerose regole giuridiche troppo spesso ignorate.

Indice:

  • Il fatto

  • Interessi compensativi

  • Sospensione dei termini processuali nel periodo feriale

Il fatto

La Dottoressa X, dopo aver conseguito la laurea con il massimo dei voti alla Facoltà di Medicina e Chirurgia, frequentava la Scuola di Specializzazione in Neurologia per l’intera durata legale del corso di formazione e per il monte ore previsto dallo Statuto della Scuola (dal 1986 al 1990). Durante questo periodo di formazione non conseguiva alcuna forma di retribuzione. Non era presente nell’ordinamento giuridico italiano una norma che legittimasse la Dottoressa X a pretendere una retribuzione per aver svolto un’attività lavorativa, seppure ai fini della specializzazione. Solo con il D.lgs. 257/91 in Italia veniva data attuazione (almeno parziale) a quanto stabilito dalle direttive 75/362/CEE, 75/363/CEE. Nel 2003 la Dottoressa X, per mezzo del sottoscritto Avv. Capirossi, costituiva in mora il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, il Ministero della Salute, il Ministero del Tesoro e l’Università, chiedendo a tali Amministrazioni il riconoscimento economico retroattivo del periodo di formazione.

Nel 2008 il giudice di primo grado rigettava illogicamente la richiesta che invece era accolta in Appello. Con la sentenza n. X emessa in Camera di Consiglio in data 1° luglio 2011, depositata in data 2 agosto 2011 la Corte d’Appello dichiarava tenute e condannava tra loro in solido, le Amministrazioni convenute in giudizio (Presidenza del Consiglio dei Ministri; Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca e Ministro dell’Economia e delle Finanze, Università degli Studi) in persona dei legali rappresentanti pro tempore, “al pagamento a favore di parte appellante, a titolo di risarcimento, della somma complessiva di € X(retribuzione per gli anni della specializzazione), oltre rivalutazione ed interessi legali, secondo gli indici Istat, dal 31 luglio 1990 al saldo”. La sentenza di Appello è stata munita di efficacia esecutiva e notificata in forma esecutiva alle amministrazioni convenute. In virtù del titolo esecutivo giudiziale ex art. 474 co 2 venivano pagate alla Dottoressa X le somme spettanti come adeguata retribuzione per gli anni di specializzazione con l’aggiunta della rivalutazione.
 

Interessi compensativi

Le amministrazioni verso cui era iniziata l’esecuzione grazie alla sentenza del 2011 contestavano che gli interessi legali erano dovuti sulle somme spettanti nelle diverse annualità della specializzazione e non sulla somma integralmente rivalutata; proponevano opposizione all’esecuzione. Nel 2014 il giudice di esecuzione accoglieva l’opposizione, così contrastando con il dispositivo della precedente sentenza di Corte d’Appello (n. 1083/2011) o comunque interpretandolo arbitrariamente.

La Dottoressa X proponeva appello avverso tale pronuncia: chiedeva di verificare in primo luogo la corretta interpretazione del dispositivo della sentenza del 2011, titolo esecutivo giudiziale. Veniva introdotto il tema degli interessi compensativi che devono essere corrisposti a causa del ritardo nel pagamento della somma dovuta al creditore: nel tempo in cui il debitore è stato inadempiente il creditore non ha potuto utilizzare né le somme né gli interessi che queste avrebbero prodotto, non potendo ottenere vantaggi ulteriori. In tal senso si è  pronunciata anche la più recente ed autorevole giurisprudenza che ha disposto: “Ai fini dell’integrale risarcimento del danno conseguente al fatto illecito, sono dovuti sia la rivalutazione della somma liquidata ai valori attuali, al fine di rendere effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato, che deve essere adeguata al mutato valore del denaro nel momento in cui è emanata la pronuncia giudiziale finale, sia gli interessi compensativi sulla predetta somma, che sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito” (Cass. Civ., Sez III, n. 1189/10 giugno 2016). La sentenza n. 25571/2011 riporta, nel testo integrale della motivazione: “Sull’importo liquidato all’attualità della data della pronuncia possono essere riconosciuti gli interessi compensativi, da calcolarsi mediante l’attribuzione di interessi sulla somma liquidata all’attualità”. La ratio alla base delle più recenti pronunce è quella di garantire al danneggiato un integrale risarcimento del danno patito, cosa che la sentenza del 2014, in accoglimento dell’opposizione, non si era preoccupata di fare: tale sistema di calcolo postula infatti che il credito da risarcire sia del tutto infruttifero perché non attribuisce alcun interesse sui frutti.

Sospensione dei termini processuali nel periodo feriale

Con comparsa di costituzione e risposta la parte appellata contestava la tardività dell’appello: asseriva che, trovandosi nell’ambito del giudizio di opposizione all’esecuzione, non aveva applicazione la disciplina della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale. L’articolo 3 della legge 742 del 1969 statuisce che la disciplina della sospensione dei termini feriali prevista all’art. 1 non si applica alle cause ed ai procedimenti ex art. 92 del R.D. n. 12 del 1941; all’art. 92 del R.D. si fa espresso riferimento all’ “opposizione all’esecuzione” per la quale dunque non vale la disciplina della sospensione dei termini feriali. La citata normativa rispetta evidentemente una ratio di tutela dell’opponente: si vuole evitare che, nel corso del giudizio, questo continui a subire danni derivanti dall’eccessivo protrarsi di un’esecuzione, ritenuta ingiusta. Tuttavia nel caso di specie si era già ottenuta in primo grado la sospensione dell’esecuzione e l’opponente non temeva più alcun pregiudizio derivane dal protrarsi della causa. La parte creditrice si trovava invece costretta a formulare una domanda riconvenzionale al giudice di opposizione, per non perdere la possibilità di accertare il proprio credito con riferimento al giudizio de quo. A tal fine la Dottoressa X introduceva un giudizio di merito con atto di citazione notificato alla controparte il 10/10/2012. Nel chiedere un ricalcolo degli interessi, la parte opposta esercitava un’azione giudiziale (si ha infatti azione giudiziale ogni volta in cui è proposta una domanda nei confronti di qualcun altro) e con la proposizione di tale azione la Dottoressa X, opposta, diventava anch’essa parte attrice nel giudizio.

E ‘evidente la differenza dei momenti genetici e delle causae petendi delle domande proposte dai due diversi attori in causa: l’opponente debitore e l’opposto creditore, attore sostanziale. L’opponente debitore formula una domanda di accertamento negativo non basata su un titolo formativo di un diritto soggettivo in quanto tale; si può parlare di domanda senza titolo. Sostiene un principio che coincide con la massima della sentenza di primo grado in accoglimento dell’opposizione all’esecuzione. Ritiene che gli interessi da corrispondere abbiano un quantum che non è possibile calcolare unitariamente: occorrerebbe, secondo la P.A., far riferimento a ciascuna singola annualità passata e dunque al segmento di rivalutazione della somma capitale maturato in quell’anno. Ritiene altresì che non dev’essere calcolato, e non spetta al creditore, il frutto che quest’ultimo avrebbe percepito se avesse disposto dell’interesse dall’anno di riferimento (1990) per tutti quelli a venire. La causa petendi qui - dal punto di vista della P.A. - si identificherebbe con l’inesistenza nell’ordinamento giuridico di un diritto ad essere risarcito, per gli anni di mancata disponibilità, dell’interesse legale che avrebbe dovuto essere calcolato sul segmento annuale di rivalutazione dall’anno di inizio al saldo. La domanda dell’opposto creditore, attore sostanziale, presentata, pena decadenza, nell’ambito del giudizio di opposizione all’esecuzione, trova il proprio titolo/fatto genetico nel danno subito a causa del mancato pagamento dell’opponente. La causa petendi sta nel diritto, sorto in capo all’attore sostanziale e riconosciuto a livello comunitario, alla restituzione del compenso mensile non percepito unito ad un ristoro per la mancata disponibilità delle somme, mese per mese, anno per anno.  La domanda presentata dall’opposto - seppure, per le citate ragioni, nell’ambito del giudizio di opposizione all’esecuzione- è una domanda del tutto diversa, autonoma ed indipendente rispetto a quella dell’opponente, non certo conseguenziale o accessoria a quest’ultima. L’Amministrazione negava il fatto che esistesse un diritto del creditore ad ottenere gli interessi capitalizzati ancora spettanti; allora, per la prima volta, il creditore si trovava a dover dimostrare il proprio diritto e diveniva attore proprio per poter chiedere tale accertamento positivo, del tutto autonomo rispetto all’accertamento negativo dell’opponente. La controversia esce dal solco dell’opposizione all’esecuzione.
Si ha una domanda riconvenzionale presentata dall’opposto creditore, in quanto ha un fatto genetico e una causa petendi diversi da quelli della domanda proposta dall’opponente. In virtù del combinato disposto dell’art. 615 c.p.c. V e VI e di autorevole giurisprudenza (Cass.Civ, sez III n. 4939/88, Cass. Civ. sez. III n. 1123/2014), quando, in sede di opposizione all’esecuzione, il creditore procedente presenta domanda riconvenzionale, si crea un giudizio soggetto alla sospensione dei termini feriali. In particolare la sentenza n. 1123/2014 considera il caso in cui, in sede di opposizione all’esecuzione, il creditore opposto chieda la reiezione dell’opposizione e, nel caso in cui l’opposizione sia accolta, presenti una domanda riconvenzionale subordinata intesa ad ottenere un accertamento positivo sulla situazione sostanziale. In tale ipotesi la controversia è soggetta alla sospensione feriale se la sentenza del primo Giudice accoglie l’opposizione e dunque va a decidere anche sull’ulteriore ed autonoma domanda dell’opposto (Cass. N. 1123/2014).

Nel caso de quo la Dottoressa X, nell’introdurre la causa, non chiedeva solo il rigetto dell’opposizione ma pretendeva anche un nuovo accertamento sulla situazione sostanziale riportata nel titolo esecutivo. Successivamente, l’opposta creditrice appellava la sentenza con cui il Giudice di prime cure aveva accolto l’opposizione all’esecuzione; ma nel momento in cui aveva accolto l’opposizione il Giudice aveva già deciso anche sulla domanda riconvenzionale presentata dalla parte opposta, consolidando una determinata situazione sostanziale in capo all’opposta. E’ pacifico, secondo la lettera della legge e la giurisprudenza, che il giudizio in questione, in tutti i suoi gradi, dev’essere soggetto alla sospensione dei termini feriali, come un’ordinaria causa di merito. La sentenza n. 1123/2014 riprende la sentenza n. 4939/1988 ed entrambe statuiscono che, una volta sciolto il nesso di subordinazione ed esaminata anche la nuova domanda presentata dall’opposto, l’esercizio del diritto di impugnazione è regolato dal principio per cui: quando la decisione riguarda due diverse controversie, l’una soggetta e l’altra no alla sospensione, l’impugnazione che riguarda entrambe è regolata dalla sospensione.  

DIRITTO COMUNITARIO RECEPITO IN ITALIA

La vicenda in discorso – a prescindere dagli aspetti più nello specifico affrontati- ha particolare interesse anche in ambito comunitario e potrebbe risultare utile per quei medici specializzandi per cui non è ancora intervenuta la prescrizione.

La normativa comunitaria e interna

Il 16 giugno 1975 venivano emanate dal Consiglio CEE due direttive, la 75/362/CEE- volta al reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli di medico, nonché ad agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi (c.d. direttiva riconoscimento) - e la 75/363/CEE- intesa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative per le attività di medico (c.d. direttiva coordinamento). Il 22 maggio 1978 la legge n 217 (“Diritto di stabilimento e libera prestazione dei servizi da parte dei medici cittadini di Stati membri delle comunità Europee”), relativa sia ai medici generici sia ai medici specialisti, dava una prima trasposizione di tali direttive nel diritto italiano. Il 26 gennaio 1982 entrambe le direttive del ’75 venivano modificate dalla direttiva 82/76/CEE, la quale con l’art. 13 integrava la c.d. direttiva coordinamento con un Allegato relativo alle caratteristiche della formazione a tempo pieno e a tempo ridotto dei medici specialisti, poi sostituito dall’Allegato I della direttiva 93/16/CEE. In considerazione dell’impegno esclusivo richiesto agli specializzandi per la loro partecipazione alla totalità delle attività proprie del ramo per il quale veniva acquisita la specializzazione, la direttiva 82/76/CEE iniziava a prescrivere tale forma di esercizio della professionalità (seppur) finalizzata alla formazione venisse fatta “oggetto di una adeguata remunerazione”. Sebbene l’art. 16 della direttiva 82/76/CEE avesse previsto che gli Stati membri adottassero le misure necessarie per conformarsi alla medesima entro e non oltre il 31 dicembre 1982, lo Stato italiano la ignorò fino all’8 agosto 1991, quando con il D.lgs. n 257 l’Italia diede attuazione alla normativa comunitaria, con quasi un decennio di ritardo! Il D.lgs. 257/1991 veniva promulgato solo a seguito della sentenza della Corte di Giustizia CE 7 luglio 1987 (causa 49/86, Commissione/Italia), con la quale la Corte aveva dichiarato che, non avendo adottato nel termine prescritto le disposizioni necessarie per conformarsi alla normativa comunitaria, la Repubblica italiana era venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato CE. A questo stato di cose il legislatore italiano poneva tardivamente rimedio col D.lgs. 257/1991, adottato su delega conferita con la legge n 428 del 29 dicembre 1990: l’art. 6 di tale decreto sanciva che “agli ammessi alle scuole di specializzazione… in relazione all’attuazione dell’impegno a tempo pieno per la loro formazione, è corrisposta, per tutta la durata del corso, ad esclusione dei periodi di sospensione della formazione specialistica, una borsa di studio determinata per l’anno 1991 in 21.500.000 £”; l’art. 8 limitava, però, la corresponsione della borsa di studio ai soli medici iscritti alle scuole di specializzazione (tra cui quella in neurologia) a partire dall’a.a. 1991-1992, così escludendo tutti i medici che, come la Dottoressa X, avevano cominciato il corso di specializzazione prima di tale anno accademico. Numerose pronunce hanno riconosciuto che “deve essere disapplicato dal giudice nazionale il D.lgs. 8 agosto 1991 n. 257, nella parte in cui riserva l’applicazione dell’ordinamento comunitario ai soli medici ammessi alle scuole di specializzazione nell’anno accademico 1991/1992…” (T.A.R. Lazio, sez. I, 16/04/1993 n° 601), poiché il suddetto decreto “nel riservare l’applicazione dell’ordinamento comunitario ai soli medici ammessi alle scuole di specializzazione nell’anno accademico 1991-92, si pone in contrasto con le direttive CEE 16 giugno 1975 n. 75/363 e 26 gennaio 1982 n. 82/76” (Consiglio di Stato, sez. IV, 25/08/1997 n° 909). Sulla vicenda è poi intervenuta la Corte di Giustizia a seguito dei rinvii pregiudiziali ex art. 234 TCE (ora art. 267 TFUE)[1] promossi dal Pretore di Bologna e dal Tribunale di Venezia. Con la c.d. sentenza Carbonari del 25 febbraio 1999 (C 131-97, Carbonari e altri/Università di Bologna e altri) la Corte di Giustizia CE ha statuito, ex tunc ed erga omnes, che “l’obbligo di retribuire in maniera adeguata i periodi di formazione dei medici specialisti… è incondizionato e sufficientemente preciso”, con la conseguenza che tale obbligo avrebbe potuto essere adempiuto attraverso “l’applicazione retroattiva e completa delle misure di attuazione della direttiva 82/76”, la quale “permette di rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della tardiva attuazione di tale direttiva”. Quanto affermato con la sentenza Carbonari è stato poi ribadito il 3 ottobre 2000 con la c.d. sentenza Gozza (C 371/97, Gozza e altri/Università di Padova e altri), con la quale la Corte di Lussemburgo ha nuovamente sostenuto che “l’obbligo di retribuire in maniera adeguata i periodi di formazione tanto a tempo pieno quanto a tempo parziale… è incondizionato e sufficientemente preciso nella parte in cui richiede… che la sua formazione si svolga a tempo pieno o a tempo ridotto e sia retribuita”. A ciò si aggiunga quanto sostenuto dalla stessa Corte comunitaria nel comunicato stampa n° 71/2000 del 3 ottobre 2000, collegato alla sopradetta sentenza Gozza: “La Corte ricorda anzitutto che, conformemente alla sua giurisprudenza anteriore, il diritto comunitario obbliga gli Stati membri, sotto il controllo del giudice nazionale, a remunerare i periodi di formazione specialistica (tanto che si svolgano a tempo pieno o a tempo parziale). Il giudice nazionale dovrà quindi controllare che i medici interessati possano beneficiare, tenuto conto degli obiettivi della direttiva, dei diritti a remunerazione anche per il periodo in cui l’Italia non ha rispettato i propri obblighi”. In altri termini, con tale documento, seppur non ufficiale ad uso degli organi di informazione, la Corte di Giustizia ha inteso ribadire il principio in base al quale anche i medici specializzandi prima della trasposizione delle direttive in esame nel diritto italiano (cioè ante 1991) vantavano il diritto a percepire un’adeguata remunerazione.  Lo Stato italiano ha reagito con l’emanazione della legge del 19 ottobre 1999 n 370 e col relativo decreto ministeriale di attuazione del 14 febbraio 2000, i quali hanno disposto l’assegnazione di borse di studio di £ 13.000.000 annue da parte del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica agli ex specializzandi degli anni 1983-1991, purché “destinatari delle sentenze passate in giudicato del Tribunale amministrativo regionale del Lazio (sez. I bis), numeri 601 del 1993, 279 del 1994, 280 del 1994, 281 del 1994, 282 del 1994, 283 del 1994”. Però, in proposito il Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza 165/2004 ha dichiarato illegittimo il decreto ministeriale del 14 febbraio 2000 nella parte in cui prevede la corresponsione della borsa di studio fra tutti i medici specializzati negli anni 1982-1991 solo ai destinatari di sentenze favorevoli passate in giudicato. Con il che deve ritenersi definitivamente acclarato il diritto di tutti gli ex specializzandi, anche immatricolati prima dell’a.a. 1991-1992, a percepire un’adeguata remunerazione, il cui importo deve essere determinato ai sensi dell’art. 6 d.lgs. 257/1991, a prescindere dal fatto che siano destinatari di una precedente sentenza del T.A.R.
Il diritto alla borsa di studio nasce da tale normativa comunitaria e cioè già nel 1975, ma risulta pienamente e definitivamente riconosciuto solo a partire dalle sentenze della Corte di Giustizia del febbraio 1999 e dell’ottobre 2000. Le sopraccitate direttive, anche qualora non fossero (ritenute) immediatamente applicabili nell’ordinamento interno, dovrebbero comunque entrare nel diritto nazionale attraverso l’attività interpretativa del giudice interno, al quale spetta, in sede di applicazione delle disposizioni di diritto nazionale sia precedenti che successive ad una direttiva, di interpretare il diritto interno in modo quanto più conforme alla direttiva stessa onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima. In tal modo si evita che lo Stato trasponga le direttive nel suo diritto interno in modo difforme e con addirittura divari temporali di decenni, cosa questa che comporterebbe un’inaccettabile disparità di trattamento tra cittadini comunitari (e anche nazionali), oltre che una frammentazione del mercato unico. Pertanto, in mancanza di un tempestivo e soddisfacente intervento del legislatore, l’applicazione del D.lgs. 257/1991 retroattiva e conforme alla normativa comunitaria si impone come la soluzione più diretta e più ragionevole di una questione troppo a lungo irrisolta ed incerta (quella della borsa di studio dei medici specializzandi ante 1991), soluzione che consente al giudice nazionale, avvalendosi del suo ruolo di giudice “naturale” del diritto comunitario, di ripristinare a posteriori l’effettività e l’uniforme applicazione del diritto comunitario. Infatti, “l’applicazione retroattiva e completa delle misure di attuazione di una direttiva (nel caso di specie il D.lgs. 257/1991) permette di rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della tardiva attuazione di tale direttiva (nel caso di specie le direttive 75/362/CEE, 75/363/CEE e 82/76/CEE)” (sentenza Gozza, pt. 39 della motivazione; sentenza Carbonari, pt. 53 della motivazione). Dunque, in forza delle sentenze Carbonari e Gozza della Corte di Giustizia, per ottenere l’effettiva attuazione delle direttive e, di conseguenza, l’adeguata remunerazione, gli ex specializzandi possono “ancorarsi” all’efficacia autonoma delle direttive in esame, pretendendo l’applicazione diretta di queste e l’eventuale disapplicazione delle norme interne contrarie, così da avere un’interpretazione comunitariamente orientata della normativa nazionale. Difatti, l’istituto della disapplicazione era ed è il necessario baluardo a difesa del principio del primato del diritto comunitario e trova pacifica conferma nella giurisprudenza della Corte di Giustizia CE (ad esempio C 103/88, 22 giugno 1989, caso Costanzo; C 106/77, 9 marzo 1978, caso Simmenthal), nonché da parte della Corte Costituzionale, che ha ritenuto che “le disposizioni della CEE che soddisfano i requisiti dell’immediata applicabilità entrano e permangono in vigore nel territorio italiano senza che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla legge ordinaria dello Stato, anteriore o successiva… l’effetto connesso con la loro vigenza è quello non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale” (Corte Cost., sentenza 170/1984). E il principio secondo cui la normativa comunitaria entra e permane in vigore nel territorio dello Stato italiano senza che i suoi effetti possano essere intaccati dalla legge ordinaria dello Stato, ove sia soddisfatto il requisito dell’immediata applicabilità, vale non solo per la disciplina prodotta dagli organi della Comunità mediante le sue disposizioni normative, ma anche per le statuizioni risultanti da sentenze interpretative della Corte di Giustizia, come affermato già dalla Corte Costituzionale con la sentenza 113/1985: le pronunce pregiudiziali interpretative della Corte di Giustizia – come le sentenze Carbonari e Gozza – hanno natura dichiarativa e, pertanto, efficacia retroattiva, sin dal momento dell’entrata in vigore delle norme interpretative. Tale retroattività comporta che il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia, può essere applicato ad ogni rapporto giuridico già sorto, purché non esaurito. Ne consegue che, intervenuta la decisione interpretativa della Corte e configuratosi il contrasto tra la normativa italiana e quella comunitaria, la norma interna ritenuta incompatibile non può più essere applicata dal giudice nazionale al caso di specie, senza che tale mancata applicazione trovi un limite temporale iniziale con riferimento al momento della pronuncia interpretativa. Ciò significa che le direttive comunitarie del 1975, recepite –se pur in modo incompleto- nel 1991 a seguito delle ulteriori pronunce interpretative della Corte di Giustizia del 2000, devono essere attuate, così come interpretate

Prescrizione del diritto

Ci si è interrogati sul termine entro cui far valere il diritto, di matrice comunitaria, all’equa retribuzione per l’attività di specializzando. Si è innanzi tutto discusso sulla natura della responsabilità. La Corte di Cassazione Civile, con la Sentenza n. 17350 del 2011, chiariva e ribadiva che il termine di prescrizione è decennale (art. 2946 c.c.): si tratta della violazione di un obbligo di legge; inoltre il termine decennale è “quello generale e certamente più favorevole rispetto ai termini speciali, più brevi. Risponde, quindi, al principio comunitario di effettività” (sent. Cass 17350/2011 capo 6.1.). L’art. 4, comma 43, della legge 12 novembre 2011, n. 183 – secondo cui la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da mancato recepimento di direttive comunitarie soggiace alla disciplina dell’art. 2947 c.c. (prescrizione quinquennale) e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato – è norma che, in difetto di espressa previsione, non può che spiegare la sua efficacia rispetto a fatti verificatisi successivamente alla sua entrata in vigore e dunque non ha efficacia retroattiva, a ciò conseguendo che per i fatti verificatisi prima della sua entrata in vigore (1° gennaio 2012) opera la prescrizione decennale, secondo la qualificazione giurisprudenziale nei termini dell’inadempimento contrattuale.  A prescindere dalla durata dei termini di prescrizione ciò che più interessi è il dies a quo dal quale cominciano a decorrere. Ci sono ancora voci differenti, così come ci saranno sempre, in particolare la Cassazione si è pronunciata nel 2011 (sentenza n.10813) statuendo che il termine di prescrizione  inizia a decorrere dal giorno in cui è entrata in vigore la normativa italiana di recepimento. Per i medici il riconoscimento pieno della retribuzione della formazione è arrivato solo nel 1999 e quindi la possibilità di richiedere un risarcimento è stata concreta fino al 2009 (per la precisione fino al 27 ottobre 2009). Il diritto al risarcimento del danno da mancata adeguata remunerazione della frequenza della specializzazione degli specializzandi medici ammessi alle scuole negli anni 1983-1991 s’intende prescritto solo alla condizione che i medesimi non abbiano agito giudizialmente o non abbiano compiuto atti interruttivi del corso della prescrizione decennale, cioè appunto entro il 27 ottobre 2009.  Devono ritenersi idonei ai fini dell’interruzione della prescrizione gli atti di messa in mora indirizzati ai Ministeri, stante il principio affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. 26.6.2013 n. 16104) secondo cui, in materia di risarcimento del danno per il tardivo recepimento da parte dello Stato delle direttive 75/362/CEE e 82/76/CEE, i Ministeri non sono privi di legittimazione passiva, ma vanno considerati quali articolazioni facenti capo all’istituzione “Governo” ovvero alla Presidenza del Consiglio, e quindi soggetti destinatari della pretesa e di ogni atto di messa in mora o interruttivo della prescrizione. Non sono idonee a interrompere la prescrizione le richieste di pagamento indirizzate soltanto alle Università presso le quali le specializzazioni furono acquisite, poiché nessuna responsabilità, neppure solidale, è configurabile in capo alle stesse in ordine all’inadempimento a direttive comunitarie (Cass 28.7.2004 n. 14240; Cass. 10.2.1995 n. 1490; Cass. 15.1.1981 n. 65).

Va infine considerato che la legge del 1999 non rappresenta ancora pieno recepimento delle direttive del 1975, il quale si ha forse con la sentenza interpretativa della Corte di Giustizia del 2000. In ogni caso, anche alla luce di tali contrasti giurisprudenziali, chi nel periodo di prescrizione (decennale o quinquennale a seconda dell’entrata in vigore o no della legge n. 183/2011) abbia agito giudizialmente o compiuto un valido atto interruttivo, ha ancora la possibilità di agire per soddisfare il proprio diritto.

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[1] Corte di giustizia è competente a decidere sulle questioni di interpretazione delle disposizioni del Trattato che possono sorgere in ogni momento dinnanzi alle giurisdizioni nazionali.

Articolo del: 06 mar 2021