Come scrivere un messaggio alla psicologa

Mi telefona un paziente in trattamento, per comunicarmi che sente di non farcela più, preannunciando l’intenzione di togliersi la vita. Discutendo per qualche minuto, ottengo la promessa che verrà a parlarmene di persona al prossimo appuntamento, anche se per lui sarà l’ultimo… (cosa che poi, per fortuna, non accade). Altri mi scrivono sms del tipo: “Mi aiuti a uscire da questo tremendo disagio, non ce la faccio più, ho appena avuto paura di …”.  Oppure: “Ma perché lei mi mette i bastoni tra le ruote. Non capisce quanto ho sofferto in tanti anni di vita?” O ancora: “Dottore, sono arrivata a capire una cosa molto importante. Gliela comunicherò al prossimo incontro”. Sento a volte, sullo sfondo della conversazione, le voci dei familiari dei pazienti (e talvolta anche dei miei…) che imprecano, intimando di non disturbarmi ‘fuori orario’. Tra le mie molte occupazioni quotidiane, devo valutare e decidere se rispondere alle chiamate impreviste dei pazienti; ma, soprattutto, mi tocca scegliere come condurle.  I contatti telefonici sono esempi delle intersezioni possibili del terapeuta nella vita reale del paziente, e viceversa. Gli psicoanalisti hanno dibattuto per decenni sulle regole con le quali si avvia e si realizza una relazione terapeutica. Prospettando una possibile diffusione su vasta scala della psicoanalisi in ambito terapeutico, in una conferenza intitolata “Vie della terapia psicoanalitica”, nel 1918 Sigmund Freud affermava che “l’applicazione su vasta scala della nostra terapia ci obbligherà a legare in larga misura il puro oro dell’analisi con il bronzo della suggestione”. La specificità del processo psicoanalitico usa il metodo della libera associazione (l’oro della psicoanalisi) per scoprire la parte inconscia della vita psichica. Nei primi passi dello sviluppo di questa disciplina, si escludeva la possibilità di avvalersi di approcci terapeutici basati sulla suggestione, sull’ipnosi, sull’educazione o la manipolazione del paziente. Il rapporto tra paziente e analista si strutturava in modo da mantenere quest’ultimo il più possibile neutrale, tenendolo fuori dalla vista del paziente durante tutta la seduta, grazie al suo disporsi di lato o dietro il divano o lettino su cui il paziente si adagiava. Erano rigidamente prescritti incontri e frequentazioni tra terapeuta e paziente al di fuori dello spazio terapeutico. Con questo indirizzo lo psicoanalista si poneva al servizio del paziente in un modo del tutto specifico, evitando di assumere atteggiamenti di sostegno o di interferenza nei confronti della sua vita e del suo contesto. Nel corso degli anni, però, questa impostazione è apparsa riduttiva alla luce dell’ampliamento degli obiettivi della psicoanalisi e della sua estensione a organizzazioni psicopatologiche diverse dalla nevrosi, in conformità con gli sviluppi che ha avuto anche la teoria psicoanalitica fino ai giorni nostri. D’altra parte lo stesso Freud ha individuato, quale criterio del recupero dell’individuo sofferente, la riscoperta della capacità di amare e di lavorare: segno della sua attenzione al mondo delle relazioni reali, oltre che dei suoi legami con l’inconscio. In un tempo più recente si è fatta strada una prassi di  psicoterapia psicoanalitica ‘di sostegno’, nata a partire dalla constatazione che in talune situazioni l’esplorazione dei meccanismi di difesa dell’analisi del transfert non produce efficacia, e può anche portare il paziente a un peggioramento delle proprie condizioni. La tecnica si è sviluppata, di conseguenza, in un senso diverso da quella della psicoterapia interpretativo-espressiva. Si basa su di un modello conversazionale: invece di ascoltare in silenzio, come in psicoanalisi, il terapeuta favorisce l’impegno e sposta l’attenzione dal passato al presente. In questo modello lo psicoterapeuta, invece di interpretare, offre altre forme di commento e di riflessione, ad esempio riassumendo, rielaborando le osservazioni del paziente, mettendo in discussione quanto emerge e chiedendo chiarimenti. In alcuni casi il terapeuta può anche fornire incoraggiamento, rassicurazione, lode, esprimere opinioni e dare consigli; talvolta provvede ad un aiuto pratico, cercando di fornire un ancoraggio stabile al paziente nella conduzione della sua vita caotica. Ciò dovrebbe portare il paziente a provare varie fasi emozionali correttive, ad aumentare la sua consapevolezza e a ristrutturare parzialmente il suo ambiente di vita, anche dal punto di vista affettivo. Alla psicoterapia di supporto si ricorre spesso per la gestione dei problemi legati alle disabilità e alle malattie croniche. Ma essa può servire anche come trattamento a breve termine per persone relativamente sane, che hanno bisogno di aiuto per superare uno stato di crisi emotiva o di salute, o per attraversare un periodo di riaggiustamento nelle proprie relazioni interpersonali. Per quanto ancora non ci sia accordo sulla legittimità di considerare la terapia di sostegno come una psicoterapia psicoanalitica, tuttavia molti studiosi hanno valutato che, qualunque sia il taglio teorico-tecnico delle psicoterapie, tutte contengono importanti elementi di supporto. Addirittura c’è stato chi ha indicato in alcuni aspetti ‘impliciti’ del comportamento del terapeuta (la benevola neutralità, il rispetto per il paziente come individuo, l’interesse la dedizione, l’empatia ecc.) la responsabilità degli effetti non specifici di tutte le psicoterapie, spiegando così il fatto che molti pazienti migliorino la loro condizione indipendentemente dalla tecnica utilizzata dal terapeuta. Ma torniamo alle telefonate: la psicoterapia è un dispositivo che richiede la condivisione di uno spazio, di un tempo, di alcune regole. E’ uso comune consentire l’uso del telefono per funzioni ‘pratiche’ (comunicazioni relative agli appuntamenti, ritardi, assenze), ma le comunicazioni ‘di emergenza’ risultano, tra i colleghi, più che altro tollerate. Alcuni terapeuti non forniscono neppure il proprio recapito telefonico ‘privato’; molti considerano le telefonate del paziente una trasgressione delle regole, un fastidio o un incidente di percorso, e ritengono di potersi regolare di volta in volta con l’aiuto del buon senso o della buona educazione. Ma è corretto questo? Dal punto di vista psicodinamico, ritengo che negarsi al paziente che telefona, quando non sia frutto di un reale impedimento (e giustificarlo con l’argomento che egli deve imparare ad affrontare i problemi nella giusta sede) potrebbe essere in contrasto con le finalità e col metodo del sostegno terapeutico. L’ascolto del paziente, quando la sua espressività diviene poco contenibile anche fuori dallo spazio della seduta, è uno dei modi per gettare lo sguardo alle dinamiche della persona nel suo ambiente di vita. La conversazione telefonica col terapeuta, in risposta ad una sollecitazione urgente, può favorire la costruzione di un punto focale condiviso, in quanto costituisce un esercizio di riflessione ‘applicato’ ai contesti e agli scenari concreti della persona. La telefonata fornisce una continuità di ‘alimentazione’ e di ‘allenamento’ della mente del paziente impegnato in un percorso terapeutico; è -in altre parole- una delle forme che può assumere il sostegno in psicoterapia. Queste considerazioni sono tanto più rilevanti se si considera che la frequenza media delle sedute di psicoterapia si attesta oggi a una/due per settimana, e talvolta è anche più sporadica. In queste condizioni la sollecitazione del contatto, da parte del paziente che telefona, rappresenta la ricerca di una continuità di presenza e di funzione terapeutica, e la denuncia della sensazione di impotenza che egli sperimenta di fronte agli eventi esterni ed interni. Ben altre considerazioni potrebbero essere fatte nel caso di pazienti seguiti con sedute giornaliere, come accade nella psicoanalisi classica o in alcune comunità psichiatriche. Rispondere alle telefonate, in alcuni casi può aiutare il paziente a stemperare certe urgenze, a contenere l’angoscia durante momenti di crisi, ad evitare il suo accesso in Pronto Soccorso. Una condizione molto delicata, rispetto alla gestione delle telefonate, riguarda le persone con disabilità intellettiva. In conseguenza della debolezza delle loro funzioni cognitive, queste possono più facilmente -e con maggior frequenza- rivolgersi al terapeuta al di fuori delle sedute, richiedendo un sostegno attivo sul piano emotivo, cognitivo, della memoria, al fine di orientarsi adeguatamente ad affrontare le criticità per le quali chiamano. Il trattamento psicoterapeutico sostiene queste persone nel costruire pensiero e conoscenza sulle emozioni del loro mondo interno, li conduce a meglio comprendere le dinamiche relazionali, a saper regolare il comportamento sociale. Un contatto telefonico inaspettato apre quindi al terapeuta un’interessante finestra sulla capacità del paziente di partecipare attivamente al percorso della terapia, e sulla capacità di utilizzare il materiale delle sedute in modo parzialmente autonomo.

Pubblicato su “I Sogni di Cristallo” n° 9 – dicembre 2013, pag. 8-9

Come scrivere un messaggio alla psicologa

Laureato in Filosofia nel 1976 presso l’Università degli Studi di Milano, con specializzazione in Psicologia nel 1983, svolgo attività clinica. Ho insegnato nei corsi di laurea in Psicologia dell'Università di Urbino dal 1999 al 2012. In studio offro consulenza, supporto psicologico e psicoterapia a minori, famiglie e adulti. Realizzo interventi con attenzione ai bisogni dell'individuo e alle caratteristiche del suo ambiente. Ho sviluppato una particolare esperienza nella psicoterapia rivolta a persone con disabilità. Leggi tutti gli articoli di Roberto Cerabolini

Come si contatta una psicologa?

Solitamente il primo contatto tra psicologo e paziente avviene telefonicamente: il numero dello psicologo può essere trovato su Internet o ci può essere stato consigliato da un amico / parente o in alcuni casi anche da un altro psicologo che, non avendo orari liberi, ha fatto l'invio a un collega.
Durante la telefonata è necessario raccoglier informazioni specifiche, oltre al motivo per cui la persona mi contatta, c'è infatti una scaletta specifica. È importante innanzi tutto capire qual è il motivo per cui la persona chiede una consulenza, cosa sta attraversando e qual è la difficoltà che si trova a vivere.
7 segnali che dovresti contattare uno psicologo-psicoterapeuta.
I tuoi sintomi interferiscono con il tuo lavoro e/o con le tue normali attività quotidiane. ... .
Il tuo umore è “spento” ... .
Le tue abitudini di sonno sono cambiate. ... .
La tua salute psicologica influisce sulla tua salute fisica..
Mi hai teso la mano e mi hai accompagnato in questo percorso costruttivo, meraviglioso, fatto di esperienze di vita, che mi hai aiutato a mettere in pratica e a farle mie con naturalezza e, cosa più importante, con amore. Perché è questo che mi hai trasmesso, Amore per la tua professione e di conseguenza Amore per me.