Come condurre un gruppo di supervisione

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Sull'importanza della supervisione nella pratica psicoanalitica

Praticando la psicoanalisi ornai da molti anni, mi accade spesso - come del resto anche a molti colleghi di analoga, lunga esperienza clinica - di ricevere, da parte di giovani colleghi per lo più informazione - sia presso Scuole di formazione psicoanalitica che si ispirano al modello formativo dell’IPA (International Psychoanalytical Association), siapresso Istituti che si riconoscono invece nell’insegnamento lacaniano - richieste di “supervisioni”, o di “controllo” (come i lacaniani preferiscono chiamare le supervisioni), di casi clinici di pazienti seguiti in terapia psicoanalitica.

Il momento della supervisione, o del “controllo” -vale a dire l’esperienza di sottoporre un proprio caso clinico, al fine di verificarne il corretto andamento, ad un collega generalmente più esperto - è infatti, insieme a quelli della propria analisi e del cosiddetto training “scolastico”, riconosciuto - da parte ormai di quasitutte le Scuole di formazione per psicoanalisti - fondamentale ed ineludibile nelpercorso formativo di chiunque desideri diventare psicoanalista.

Ritengo utile riportare in questo breve scritto il miopensiero sull’argomento, sia perché non mi pare se ne scriva molto, sia perchéritengo utile dare una testimonianza di quelli che possono essere, almenosecondo me e sulla base della mia esperienza, gli aspetti più salienti checaratterizzano la pratica della supervisione, sia dalla parte di chi laconduce, sia da quella di chi la riceve, soprattutto in termini di vantaggi edi rischi.

Una prima questione riguarda l’ambito dellalegittimità che un analista può o meno riconoscersi anche come supervisore.Basta essere un analista per ritenersi anche in grado di condurre un percorsodi supervisione ad un collega, o occorre che abbia anche altri requisiti? Come dicevoall’inizio, nella mia esperienza, un motivo, forse uno tra quelli principali, percui mi giungono richieste di supervisioni, è il riconoscimento di una certa consuetudinenella pratica della psicoanalisi, di essere cioè un analista di lungaesperienza clinica. Quello della comprovata esperienza è un requisitoeffettivamente basilare per accreditare un analista anche come supervisore,tanto è vero che questo, insieme alla dimostrata capacità di analista, è unodei criteri che molte Scuole per per psicoanalisti, soprattutto quelle che siriconoscono nei canoni formativi stabiliti dall’IPA, utilizzano per “certificare”alcuni come analisti supervisori e da proporre, anche tassativamente, per lesupervisioni dei loro allievi.

Tuttavia, aldi là dei riconoscimenti ufficiali delle Scuole di appartenenza, vorreiproporre la questione da un’altra angolatura, da un’altra prospettiva, da unaltro vertice, quello dell’etica. Vale a dire: quella della supervisione è una praticache un analista può avere l’opportunità di condurre nei confronti di un suocollega, a prescindere dai riconoscimenti scolastici, a prescindere dall’essereo meno un supervisore “certificato”, ma semplicemente perché gliene è statafatta richiesta sulla base di un riconoscimento e di un desiderio soggettivi. Pensoinfatti che, al pari della pratica analitica, anche quella della supervisionefaccia parte dell’etica di uno psicoanalista: se non possiamo sottrarci allarichiesta di aiuto da parte di un paziente, possiamo forse farlo nei confrontidi un collega più giovane, meno esperto o alle prime armi, che ci chieda unparere sulla sua pratica o su un caso clinico che sta seguendo e in cui sentedi incontrare delle difficoltà? Il che corrisponde evidentemente, dalla parte dell’analistache sente il bisogno di un aiuto, alla possibilità di poter scegliere ilproprio supervisore più sulla base di un riconoscimento soggettivo, e che muovada un desiderio, piuttosto che sulla base di soli criteri di certificazioneoggettiva del supervisore. In altri termini, la sola certificazione oggettivanon può bastare: un percorso di supervisione presenta aspetti etici e“transferali” per certi versi sovrapponibili a quelli di un’analisi che, pur trattandosiovviamente di una situazione radicalmente diverse da quella di un’analisi, fannosì che non si possa prescindere, anche nel caso di una supervisione, da una sceltache sia il più possibile libera da imposizioni di scuola, e dunque rispettosadel diritto di poter scegliere i supervisore che si desidera.

La seduta di supervisione è conforme alla sedutaanalitica.

Se dunque la supervisione sui propri casi èfondamentale per la formazione di uno psicoanalista, lo è allo stesso modo, amio avviso, anche per chi, essendo già psicoanalista, può vantare ormai una certaconsuetudine con la pratica della psicoterapia psicoanalitica.

Freud raccomandava agli psicoanalisti di sottoporsidi tanto in tanto ad un percorso ulteriore di analisi personale: auspicava che nesentissero l’utilità, se non addirittura la necessità, non solo al fine dimantenere una certa consuetudine con il proprio inconscio, ma anche per affrontarequegli eventuali nodi problematici, o quei conflitti, a loro tempo nonsufficientemente analizzati, o ancora inediti, e che, se lasciati a loro stessi,avrebbero potuto fare da ostacola al lavoro con i propri pazienti.

Analogamente, ritengo che sia altrettantoauspicabile che ogni psicoanalista senta il bisogno, o l’utilità, diconfrontarsi anche, ogni tanto, con un collega su qualcuno dei propri casiclinici, soprattutto se dovesse incontrarvi delle difficoltà, al fine di poter verificare,attraverso il parere di un osservatore esterno, l’andamento di quella cura,coglierne aspetti clinici che potrebbero essergli sfuggiti, ma anche poternesapere di più su come egli si pone nel lavoro con i propri pazienti e come siimplica nel loro inconscio.

Insomma, se ogni tanto una tranche di analisipersonale consentirebbe all’analista di saperne sempre qualcosa di nuovo sulproprio inconscio, periodi anche brevi di supervisione con un collega gli permetterebberodi saperne di più su sull’inconscio dei propri analizzanti, e su come egli vi lavora.

Nondimeno, penso che anche l’analista supervisore sitroverebbe, dal canto suo, a trarre, evidentemente, innegabili benefici dalconfronto con un collega che dovesse chiedergli una supervisione.

In altre parole, mi sono andato sempre piùconvincendo che, pur fondando la sua efficacia su di una struttura di relazioneirriducibilmente asimmetrica - in questo del tutto conforme a quelladell’analisi - quella della supervisione sia comunque un’esperienza dicrescita, un’occasione di arricchimento e di sapere, per entrambi i soggetti coinvolti,quale che sia il versante su cui essi si dispongano, se quello di chi allasupervisione si sottopone, o se quello di chi la conduce.

La supervisione è dunque utile per un analista, nonsolo quando la richieda, ma anche quando la conduca, esattamente come l’esperienzadell’analisi che, se è ineludibile per il futuro analista come percorso personale(sappiamo che si diventa psicoanalisti soltanto attraverso la propria analisi),è anche utile che un analista la pratichi quando le venga richiesta, e non soloin quanto mezzo per guadagnarsi da vivere, ma soprattutto perché un analistache non abbia pazienti in analisi difficilmente potrebbe riconoscersi in quantotale.

Insomma, seguire dei colleghi in supervisione puòessere un bene per un analista, per la maturazione della sua esperienza, almenoquanto seguire dei pazienti, dal momento che la supervisione si svolgeattraverso un percorso che è di per sé piuttosto conforme a quello della cura psicoanalitica:entrambi hanno a che fare con l’inconscio in azione; in entrambiaccadel’inconscio .

Intendo dire che, a mio avviso, il percorso dellasupervisione, pur implicando comunque un livello anche intellettuale dell’esperienza,pur essendo un percorso anche di apprendimento, tuttavia, dal momento chel’oggetto di cui tratta è, per come dire, laverifica di come l’analista lavorasull’inconscio del suo paziente, è inevitabile che sia anche illuogo in cuil’inconscio si disvela.

La supervisione come luogo del desiderio dell’analistae dell’articolazione diacronica dell’inconscio.

Certo, la supervisione è, e deve rimanere, sempre unpercorso distinto e separato da quello psicoanalitico, e tuttavia l’inconscio vifa comunque il suo ingresso, anche se ovviamente un ingresso di tipo diverso,complicato, possiamo dire, in quanto, non essendo rivelato direttamente dal paziente incui si manifesta, ma riferito da un analista ad un altro, implicainevitabilmente l’inconscio di entrambi.

In altre parole, la supervisione, trattando dell’inconsciodi un paziente presente solo nella narrazione che se ne fa in supervisione - diun pazientein effige, direbbe Freud - di un inconscio dunque che non puòesser più colto nel suo momentoevenemenziale, come ciò che staaccadendo nel qui e ora della seduta, ma che può cogliersi soltanto comegiàaccaduto , può esser vista, se ci riflettiamo, anche come un luogo particolaredi quello che Lacan chiama ildesiderio dell’analista . Anzi, possiamodire che la supervisione èil desiderio dell’analista , dal momento cheessa sussiste, ha motivo di essere, solo nella misura in cui un analista avvertail bisogno di dire qualcosa di un suo analizzante a qualcuno. E da cosa può nascere,in un analista, una tale necessità se non da undesiderio ? Vale a direda quella particolare posizione etica dello psicoanalista in virtù della qualeegli non può tanto facilmente sottrarsi all’esigenza di dar conto ad un altro diquello che combina con il suo analizzante, di voler verificare, con unterzo, di essere effettivamente nel dirittodi rispondere come analista ad un paziente che gli ha chiesto di essere aiutatomediante la cura dell’analisi: posizione che Lacan individua appunto come l’unicache permetta che lì ci sia dell’analista e che chiama appuntoil desideriodell’analista . Se l’esperienza dell’analisi è sostenuta dal desideriodell’analista , quella della supervisione è il luogo della sua verifica, delsuo riconoscimento e della sua interpretazione. Del resto, il desiderio èsempre rivolto a qualcuno ed è sempre desiderio di riconoscimento, e dunque lasupervisione, in quanto luogo della verifica di ciò che un analista è chiamatoa sostenere attraverso il suo desiderio di analista, vale a dire un’analisi, effettivamentecostituisce, sul piano simbolico, il luogo in cui un analista può vedersiriconosciuto, e sostenuto, nel proprio desiderio in quanto analista, da quell’Altrosimbolico del riconoscimento che è il supervisore.

Se lasupervisione è non solo il luogo in cui l’inconscio vieneraccontato, maanche quello in cui possiamo cogliere, da una posizioneterza, come iltransfert dell’analizzante si implica nel desiderio dell’analista, essa non è tuttavia- a mio avviso - il luogo dellainterpretazione dell’inconscio del paziente,almeno non di quella interpretazione che l’analista formula al suo pazientenello spazio e nel tempo della seduta analitica. O almeno, per meglio dire,non può essere il luogo in cui l’interpretazione che si può fare dell’inconsciodel paziente possa essere dello stesso ordine di quella che l’analista formulanell’hic et nunc della seduta con il suo paziente.

Certo,se serve, il supervisore non dovrebbe sottrarsi a dare anche una sua possibileinterpretazione di quello che sembra appartenere all’inconscio del paziente sucui si sta lavorando, ma, voglio dire, quello della supervisione non è comunqueil luogo in cui l’inconscio di cui si tratta possa essere interpretato con glistessi effetti della interpretazione che l’analista formulerebbe al suopaziente nel tempo della seduta analitica.

L’ interpretazione analitica ha infatti senso, e soprattuttoefficacia, solo se comunicata al paziente sotto transfert, e dunque non può esserepredisposta in supervisione, se non in ipotesi, in quanto, quello dellasupervisione, è sempre un tempo altro rispetto q quello della seduta analitica.

Insomma, l’inconscio del paziente può essereinterpretato solo nel momento in cui accade, e in supervisione, come abbiamogià detto, si tratta di un inconscio sempre già accaduto.

Di conseguenza, se quello della seduta è il luogo incui l’inconscio dell’analizzante deve essere colto nella sincronia del suoaccadimento per essere interpretato, quello della supervisione è il luogo incui può esser ripreso per essere articolato nella sua prospettiva diacronica.

Come supervisore, soprattutto dei colleghi piùgiovani, ho sempre cercato perciò di avvertirli del valoresolo orientativo eipotetico, dunque nonpredittivo, delle interpretazioni che avessimopotuto formulare sul materiale presentato durante l’ora della supervisione, tantopiù che un giovane collega, soprattutto se ancora inesperto o, come si dice,ancora in formazione, come si sa, tendea fare come fa il suo supervisore ,ad imitarlo, e dunque a servirsi di quello che emerge in supervisione come materialepret a porter per la seduta successiva con il suo paziente.

Insomma, quello della supervisione non può diventare,a mio avviso, il luogo in cui si possa prepararel’interpretazione giusta da formulare poi al paziente. L’inconscio non può essere previsto in anticipo,e nessuna interpretazione può essere efficace, come dicevo, se non quandoformulata nel momento stesso in cui l’inconscio si manifesta attraverso qualcunadelle sue formazioni: un sogno, un lapsus, un atto mancato, un inciampo deldiscorso. Sappiamo anzi che qualsiasi atto analitico prestabilito in anticipo nonsarebbe che un modo per ostacolare, e non per favorire, il lavoro dell’analisi.La supervisione non può essere dunque il luogo in cui un analista possa venirindirizzato dal supervisore alla giusta formulazione della risposta o della interpretazioneda dare al proprio analizzante, essendo invece, più correttamente, il luogo incui l’analista viene aiutato a poter egli, da solo con il suo paziente, arrivarea formulare il suo giusto intervento, a partire dallaparola detta dalpaziente e non dallaparola appresa dal proprio supervisore.

Se mi soffermo su questo aspetto, magari coninsistenza, è perché, attraverso la mia esperienza di supervisore, ho avuto piùvolte modo di rendermi conto che il giovane collega, analogamente a quello cheavviene in una seduta analitica da parte dell’analizzante nei confronti del suoanalista, cerca di mettere anche il supervisore nella posizione di SoggettoSupposto Sapere, di colui che già sa quale potrà essere la risposta giusta,l’interpretazione corretta da dare al paziente nella prossima seduta: non sarebbe ovviamente di nessun aiuto, anzi sarebbe oltremodo dannoso per ilgiovane collega, se il supervisore, identificandosi con la figura, idealizzata,dichi sa già in anticipo cosa sia giusto fare con il paziente, finisseper accettare di mettersi nella posizione dicolui che del paziente sa dipiù dell’analista , rischio possibile, perché posizione che stimolafortemente il narcisismo e l’onnipotenza inconscia del supervisore.

L’umiltà del supervisore.

Mi sono altresì andato sempre più convincendo che,per condurre una supervisione senza cadere nella trappola del proprio narcisismo,ogni supervisore dovrebbe dotarsi ogni volta di una buona dose diumiltà .

Ritengo, infatti, che un supervisore non dovrebbeprendersitroppo sul serio , non dovrebbe arroccarsi troppo nel ruolo di chi ormaisacome si fa col paziente, non dovrebbe identificarsi troppo concolui chesa tutto e, soprattutto, conchi ne sa sempre una di più del suo collega .

Il prefisso super, anzi, a mio avviso, non rendebene, a questo punto, il vero senso di una supervisione, piuttosto, trae ininganno, poiché il supervisore non opera da una posizione di superiorità, quanto,piuttosto, da una posizionea latere, esterna, rispetto alla situazioneanalitica che gli viene sottoposta. Meglio sarebbe allora se sostituissimo iltermine di supervisione con quello di “intervisione” , secondo me piùattinente a quella che è in realtà la logica della supervisione. Quello di “controllo”,adottato dai lacaniani, è già un compromesso migliore.

In altre parole, io credo che nessun percorso disupervisione possa proficuamente avviarsi se non tenendo bene a mente che, inquanto supervisori,non possiamo saperne di più degli analisti circa i casiche essi ci sottopongono.

Ancora, in quanto supervisore cerco di evitare diprendermi anche per l’analista, o per un docente. Dicoprendermi, scrivendoloin corsivo, per giocare con l’ambiguità del termine, vale a dire persottolineare che, pur sapendo di non essere né l’analista, né un docente, potrei,inconsciamente, farmi carico anche di funzioni come quellaanalitica, odidattica, funzioni queste che non sarebbero proprie della supervisione. Insomma, perquanto come supervisore so di svolgere una funzione che è anche moltoprossima ,o simile a quella dell’analista o dell’insegnante, so anche che essa nonpuò coincidervi, né con l’una, né con l’altra, essendo, quella del supervisore,una funzione di altro tipo, una funzioneterza rispetto alla coppia analitica.

Tuttavia, penso anche che, in quanto supervisore,non sarebbe neanche giusto che io non mi rendessi disponibile ad intervenire,se posso dir così, soprattutto se si tratta di giovani colleghi ancora informazione, anche in sensodidattico, vale a dire a dare qualchechiarimento in ordine a questioni di teoria o di tecnica della psicoanalisi,oppure, se è il caso, a soffermarmi anche su quelle questioni più propriamenteattinenti alle aree problematiche o sintomatiche del collega che dovesseroemergere durante la nostra seduta di supervisione, tanto più se mi dovessero sembraretali da interferire o embricarsi in qualche modo con quelle del paziente.

Non sarebbe infatti generoso, e dunque neanche corretto,o utile, a mio avviso, attenersi rigidamente soltanto alla funzione disupervisore, precludendo al giovane collega la possibilità - il diritto direi -di chiedere chiarimenti anche di ordine tecnico, o di riferire delle difficoltàche dovesse riconoscere più come sue che del paziente, senza per questo pensareche mi stia automaticamente sostituendo al suo analista o ai suoi docenti.

Insomma, come supervisore sento anche di dovermiassumere la responsabilità di decidere, di volta in volta, se può essere opportunoe utile, ai fini del nostro lavoro, affrontare in supervisione eventualiquestioni più di carattere personale, o se non sia piuttosto il caso diriservarle comunque alla rispettiva analisi, nel caso questa fosse ancora incorso.

La supervisione come luogo in cui l’inconscio sistoricizza e l’Altro vi fa il suo ingresso.

La mia esperienza di supervisore che, come dicevo siprotrae ormai da qualche decennio, mi ha consentito di conoscere, da un verticeosservativo privilegiato, molti giovani colleghi, soprattutto ancora informazione, dal momento che la supervisione offre la straordinaria possibilitàdicogliere un analista nella immediatezza del lavoro con il proprioanalizzante.

Più volte, infatti, ho avuto la percezione che illavoro con l’analizzante continuasse anche durante la seduta di supervisione, senzainterruzione con quello nella seduta analitica: una sorta di continuitàtemporale, anche perché, come ho già detto, l’inconscio del paziente, che nellaseduta analitica si coglie nella sincronia del suo accadere, in quelladella supervisione viene ripreso e riarticolato nelladiacronia, inquanto ormai accaduto. La supervisione può dunque in questo senso esserconsiderata come il luogo dove si ricostruiscela storia dell’analizzanteattraverso il suo inconscio, vale a dire, il luogo in cui l’inconscio si storicizza. In questo senso, per dirlo in altro modo, lo spazio della supervisione è quelloin cui l’immaginario , che spesso pure imbriglia l’analista nell’hic etnunc della seduta analitica con il suo analizzante, deve lasciare il posto alsimbolico. Perché, anche se quella che siporta in supervisione è una sedutagià avvenuta, per il fatto stesso però che se ne parla ad un altro analista - ein un luogo avvertito per lo più come il luogo in cui, rispetto ad una difficoltào ad una stagnazione,qualcosa di nuovo dovrà pur accadere - quella stessaseduta, per quanto già avvenuta, è come se siriattualizzasse e ritrovassenella supervisione il luogo dove il processo viene rimesso nuovamente,ancora, in movimento, il luogo in cui, per il racconto che se ne fa, e per come losi fa, la seduta, per quanto già accaduta è come se accadesse di nuovo. Laseduta analitica trova allora nella supervisione il luogo dove essa vieneripresa attraverso un discorso nuovo, inedito, in quanto si tratta del discorsoin cuil’Altro¸ il terzo, vi fa il suo ingresso.

Penso che un giovane analista, soprattutto se informazione - ma a questo punto direi anche chiunque sia già analista “navigato”- possa avvertire il beneficio di una supervisione già per il sol fatto disapere che qualcuno, un altro, un collega, il supervisore appunto, abbiaaccettatodi prendersi cura del suo lavoro di terapeuta, di supervisionarlo, vale a dire di rendersi disponibile come figura di riferimento su cui poterfare affidamento in quanto figura terza rispetto alla coppia analitica in cui èimplicato.

Il supervisore come metafora paterna

Il supervisore allora, può esser visto come quella figuraterza che svolge la funzione simbolica dialtro rispetto alla coppiaanalista-paziente, quell’Altro , quella figuraterza su cuil’analista sa di poter contare.

Per un analista, impegnato nel lavoro con il suo analizzante,sapere di poter contare sull’Altro significa, nel nostro campo, non solosapere di poter contare su qualcuno che egli suppone ne sappiatecnicamente di più, ma anche, e direi soprattutto, di poter disporre di una figura che, inquanto terza e neutrale, gli permette di evitare diimmergersi tropponella dualità della relazione con il suo paziente: vale a dire una figura terza,che si costituisce in quantoopaca , non sul piano del rispecchiamento immaginario,ma in quanto su quello dello scambio simbolico.

Da questa prospettiva, il supervisore sarebbe dunqueilterzo che fonda l’ordine simbolico rispetto a quello immaginarioproprio della dualità della coppia analitica . Ordine simbolico che, affiancandosi,anzi,verticalizzandosi su quello immaginario, proprio della relazioneduale, impedirebbe che quest’ultima si attesti come l’unica dimensionepossibile del lavoro analitico, dal momento che sappiamo quanto è importante che,in analisi, si installi invece quella dimensione cosiddetta dellaterzeità ,vale a dire a quella funzione che rende l’analisi conforme alla situazione edipicae che l’analista deve saper costituire e curare. È infatti quest’ultima, quelladellaterzeità , vale a dire quella simbolica, la dimensione propria deltransfert, l’unica che rende possibile un’analisi, laddove quella duale,speculare, è invece la dimensione della suggestione, motivo per cui, mentrequesta tenderebbe alla stagnazione, la dimensione simbolica provvederebbe alrilancio del processo, in quanto consente l’interpretazione, l’interpretazioneanalitica, sotto transfert, che si riconosce efficace perché l’analizzante lasente provenire, come dice Lacan,da dove egli non se l’aspetta.

Ilsupervisore serve, allora, proprio a favorire che l’analista, internalizzandol’esperienza della supervisione come funzione terza propria dell’ordinesimbolico, arrivi più agevolmente a sottrarsi alle fascinazioni delladimensione immaginaria/speculare, narcisistica dunque, cui l’analizzante tendea sospingerlo, per rispondere invece anche dal registro simbolico, che è il soloche, come abbiamo visto, consentirebbe l’interpretazione analitica.

In altre parole, una buona supervisione permetterebbeall’analista di riuscire a potersi muovere con minori difficoltà - e minori resistenze- tra i due piani, quello materno (duale/immaginario) e quello paterno (terzo/simbolico),della relazione con il proprio analizzante.

Penso quindi cheil vero effetto di una buona supervisione sia quello che consenta, soprattuttoal giovane in formazione, una buonaintroiezione dell’ordine simbolicocome modulatoreterzo della relazione con il proprio paziente, chealtrimenti rischierebbe di stagnare nelle secche dell’immaginario, e dunque diconseguenza una buonadisidentificazione da tutte quelle figure, tipichedella cura immaginaria, cui il bisogno del paziente lo sospingerebbe (genitori,educatori, psicoterapeuti eccetera).

È questo effetto, della introiezione delterzo ,e delle disidentificazioni immaginarie che, a mio avviso, fa della supervisionel’esperienza formativa cardine, un’esperienza che non ha dunque tanto a chevedere con l’apprendimento di una tecnica, quanto piuttosto con l’assunzione diuna funzione, quella che permette ad un analista di costituirsi appunto anchein sensoterzo con il suo paziente.

Insomma, il supervisore si troverebbe a svolgere lafunzione simbolica delPadre nella situazione edipica, quella figuraterza che vieta cioè il godimento immaginario,l’incesto , nellarelazione duale madre-bambino, se questa dovesse procedere troppo come tale e senzaalcunlimite alla sua dimensione fusionale. Non a caso Gaddini definì lafigura del supervisorela metafora paterna dell’analista al lavoro.

Devo dire di aver tenuto sempre presente questoinsegnamento, perché lo condivido, e di averlo fatto mio: ho sempre cercato diindentificarmi, nella mia pratica di supervisore, con la metafora paterna dicui parla Gaddini, diprendermi come Padre rispetto alla coppiaanalista-analizzando, che come tale, rappresenterebbe invece, la metafora dellarelazione madre-bambino

In altri termini, possiamo dire che la supervisioneè il significante della funzione paterna, nella misura in cui la terapiaanalitica è il significante delle cure materne.

Se il supervisore è la metafora paterna, allora, comeun padre può dirsi un buon padre se sa intervenire, non per sostituirsi allamadre, ma per sostenerla nel prendere la giusta distanza dal figlio che ancoradipende da lei, un buon supervisore può dirsi tale se sa di non potersisostituire al suo collega nella cura del paziente, ma di doverlo aiutare atrovare la giusta posizione e la giusta distanza da stabilire con lui.

In questo senso ho sempre cercato di evitare dimettermi al posto del giovane collega nella cura del suo paziente, per occupareinvece il posto di quel terzoesterno al campo della cura, assicurando allostesso tempo una presenza ed una vicinanza che non fosse però avvertita mai comeingerenza nella cura, la quale deve restare sempre esclusivamente a carico dell’analista.

Ritengo infatti che altra funzione cardine delsupervisore sia quella di aiutare l’analista a riconoscersi come tale, vale adire a riconoscersi come colui che, più che saper mettere in pratica, più omeno correttamente, una tecnica adeguata, sappia mantenere la giusta posizionecon il proprio paziente, intendendo con giusta posizione quella che si fonda,da una parte, su un’etica precisa (saper stare e saperci fare col paziente )e, dall’altra, sulla capacità di ascolto (dare spazio alla parola delpaziente piuttosto che alla propria ), anche perché nessuna tecnica puòessere corretta ed efficace se non quella che proceda lungo i due binari appuntodell’etica e dell’ascolto.

La funzione etica e la capacità di ascoltodell’analista.

Direttrici ineludibili, quella dell’etica e quella dell’ascolto,in quanto proprie della posizione di ogni analista al lavoro, quali che siano isuoi orientamenti teorico-clinici o gli indirizzi della sua Scuola diappartenenza. A mio avviso, che sia freudiano, kleiniano, bioniano, winnicottianoo lacaniano, un analista è tenuto evidentemente a muoversi sempre e solo nelcampo tracciato dai concetti fondamentali della psicoanalisi, campo del quale l’eticae l’ascolto ne costituiscono il terreno di fondo.

Anche alla luce della mia esperienza dipsicoanalista e di supervisore, sono convinto che sia proprio in questadimensione di campo che i diversi orientamenti e di indirizzo degli analistitrovino il loro terreno comune, e di conseguenza che un supervisore di unorientamento possa condurre una supervisione anche ad un collega di orientamentodiverso, e anche, molte volte - se è in grado di rispettarlo - ancora piùproficuamente di una supervisione ad uno del suo stesso orientamento.

È proprio a partire da questa posizione, dipadrebenevolo , ma anche sufficientementeautorevole , attento, ma anchedisposto, se è il caso, achiudere un occhio , sorvolando su qualcheimprecisione tecnica o di metodo - anche per consentire al giovane analista dipotersene rendere conto da solo - che ho potuto costruire il mio modo distare in supervisione, il mio metodo di supervisore e, soprattutto, di poterriconoscere, tollerare e comprendere le ansie, sia quelle proprie e singolaridi ciascun giovane analista in supervisione, sia quelle piuttosto comuni econdivise, come, soprattutto, l’apprensione per la perdita del proprio analizzante.

Quando l’analista perde il paziente.

Quella di poter perdere il paziente è forse la più grandepaura dei giovani colleghi, soprattutto se ancora in formazione, seconda solo aquella di non riuscire più a trovarne. Di conseguenza, questauesta paura è anche ciò che maggiormente mi impegnanel lavoro di supervisione, prima di tutto perché ho sempre sentito il dovere, inquesti casi, di assicurare al giovane collega anche un sostegno adeguato ediscreto, e poi perché, evidentemente, può essere abbastanza difficile lavorarebene, e aiutare a lavorare bene - lavorare psicoanaliticamente intendo - se si èin preda all’ansia che il paziente con cui si è impegnati sul doppio frontedella cura e della supervisione abbia deciso di interrompere la terapia.

Quando un analistain supervisione e ancora agli inizi della sua professione, perde il propriopaziente perché interrompe la cura, si ritrova a dover fare i conti con un’esperienzaabbandonica che lo investe traumaticamente su due diversi registri: quellodella sua pratica di terapeuta, e quella del suo percorso formativo. Non è perniente facile, per un giovane analista, elaborare una tale, doppia, interruzione,di un’analisi che stava conducendo e della relativa supervisione a cuiquell’analisi stava sottoponendo.

Al di là della ferita narcisistica propria di ogniabbandono, il giovane analista può sentirsi il solo, unico, responsabile diquella interruzione, rielaborandone di conseguenza l’esperienza in termini difallimento, ma soprattutto assegnandovi il significato, per così dire, diunadoppia bocciatura, sia da parte del paziente e sia anche da parte delsupervisore.

Sappiamo che le supervisioni fanno parte del percorsoformativo di ogni giovane terapeuta che desideri essere riconosciuto in futuro comepsicoanalista dalla Scuola che ha scelto di frequentare.

Il titolo di abilitazione alla professione di psicoterapeuta,che in Italia è reso obbligatorio per legge, non è solo un titolo che autorizzalegalmente ad una pratica, ma rappresenta anche ilriconoscimento simbolico dell’Altro (quell’Altro che riunisce in sé il proprio analista, i proprisupervisori, i propri docenti, la Scuola o la Società scientifica diriferimento), un riconoscimento simbolico che ha il valore di unainiziazione e di unacertificazione aduna pratica cui ci si sente legittimati più tramite questo riconoscimento simbolicoche per il conseguimento del titolo conseguito.

È per questo che, in particolare le supervisioni,tendono ad essere vissute, più che come esperienze formative e di apprendimentoin sé e per sé, soprattutto come il momento dellaverifica e del giudizio delle proprie capacità di futuro analista. In altri termini, l’esperienza dellasupervisione è fortemente investita del significato di unriconoscimentosimbolico della propria identità di analista e dunque di unalegittimazione alla pratica della psicoanalisi da parte del proprio supervisore.

Di conseguenza, l’interruzione della terapia oggettodi supervisione, indipendentemente dalle ragioni vere che abbiano potuto causarla,anche se queste, come il più delle volte accade, dovessero stare tutte dallaparte del paziente, espone comunque il giovane terapeuta al vissuto di colpa, riconoscendoseneegli l’unico responsabile, e dunque rielaborando l’interruzione come l’effettodiun errore che, se fosse stato più bravo, avrebbe potuto evitare, e la supervisione ora come il luogo delgiudizio e della sanzione.

La supervisione allora, senza per questo avere lapretesa di sostituirsi all’analisi personale, semmai affiancandovisi, deve nondimenopotersi offrire anche come il luogo dell’elaborazione dell’esperienza abbandonica,lavorando soprattutto sulle ragioni che possono esser riconosciute dal lato delpaziente, per rimandare all’analisi personale il lavoro su quelle che possono ritrovarsidal versante dell’analista.

Tanto più che le difficoltà che il giovane analistapuò incontrare nel lavoro con un analizzante, più che di ordinetecnico, sonoper lo più di ordinefantasmatico.

Voglio dire che mi sono andato sempre piùconvincendo che glierrori dell’analista appartengono di più al suofantasma che alle sue supposte incapacità di tecniche. Spesso, infatti, èproprio la fantasia inconscia dell’analista di non essere sufficientementebravo, e neanche sufficientemente capace di seguire un analizzante per tutta ladurata del suo percorso, ad influenzare di conseguenza il buon andamento dellacura stessa e a favorire inconsapevolmente proprio l’interruzione temuta,soprattutto se il fantasma del terapeuta di non essere in grado di condurre laterapia trova il suo corrispettivo in quellospeculare dell’analizzantedi non essere in grado di sostenere la cura o di non potermeritare una guarigione.

Insomma, le interruzioni andrebbero considerate, evidentemente,più in relazione alle complesse vicissitudini del transfert e delcontrotransfert, che in relazione a supposte incapacità o lacune del terapeuta,le quali, tra l’altro, se pure esistenti, non è affatto detto che siano poiproprio quelle ad aver causato effettivamente l’interruzione di quella terapia.

Per questo, ritengo che, come supervisori, dovremmolavorare con i nostri giovani colleghi che ci richiedono una supervisione, persmontare il nesso interruzione/errore dell’analista, che è sempre riduttivorispetto alla complessità dei fattori in gioco, spesso, come ho detto, piùdell’ordine del fantasma, o delle implicazioni transfert/controtransfert, che diquello della tecnica, anche perché, come ci ricorda Winnicott:i pazientisono buoni e perdonano molti errori ai loro analisti.

Imparare a creare dentro di sé un vuoto di parole edi sapere.

Ho sempre visto nelle parole di Winnicott non certo unasorta di autorizzazione a commettere errori -tanto i nostri pazienti ciperdonano tutto - quanto, piuttosto, l’invito rivolto agli analisti a nondare eccessiva importanza alla tecnica, e al sapere teorico, a scapito delsaperstare e delsaperci fare con il proprio paziente. Posizione questa deltutto sovrapponibile a quella di Lacan quando, con il suo abituale stile provocatorio,avverte gli analisti di non preoccuparsi eccessivamente di comprendere ,dal momento chesi comprende sempre solo quello che già si sa , mentre unanalista deve essere invece interessato a quello che ancora non si sa, dunque aquello che non comprende.

Per dirlo in altro modo, l’analista dovrebbe esseresufficientemente empatico ed etico al tempo stesso, e soprattutto dovrebbesaper porre l’ascolto al primo posto del lavoro con il suo paziente,facendosilenzio dentro di sé, quel silenzio che non ha niente a che vedere con lostarsene semplicemente zitto, quanto piuttosto col saper ricreare dentro di sé quelvuoto di parole e di sapere come spazio che viene offerto alla parola delpaziente e al suo ascolto.

Sappiamo quanto sia importante che un analistasappiatacere: importante non solo perché è tacendo che si dà spazioalla parola dell’altro, ma anche perché l’azione dell’analista si avvale delpotere della parola, potere che proprio il silenzio rafforza nella parola. Perquesto in supervisione cerco di incoraggiare gli allievi a saper tacere, affinchéla parola che poi rivolgono al paziente abbia potuto acquistare il suo potere, siain altri termini potuta diventareuna parola efficace.

Per questo vedo la supervisione soprattutto comequell’esperienza che, piuttosto che trasmettere saperi teorici e abilitàtecniche, deve essere in grado di favorire, nel giovane terapeuta, la possibilitàdi un saper stare e di un saperci fare col proprio paziente. In altre parole, concepiscola supervisione come il luogo in cui un giovane terapeuta possa arrivare a riconoscersicome analista nello spazio interno, nel suo fantasma direi, nel suo desiderio,piuttosto che esercitarne la funzione attraverso il sistema delle competenze edelle abilità tecniche apprese.

Nella mia pratica di supervisore cerco dunque di prestarela massima attenzione a come un giovane si pone con il suo analizzante, vale adirealla posizione che in quanto analista è in grado di assumere emantenere con lui, in altri termini, a come egli riesca a costruire, curaree proteggere quella dimensione strutturale e costitutiva del lavoro analitico chepossiamo indicare comeluogo della cura , da alcuni definito comesettinginterno dell’analista.

La supervisione dovrebbe potersi configurare allora comequella sorta dicontenitore emotivo pensante in grado dimettere l’analistaal lavoro , non solo su ciò che attiene al paziente, ma anche, e forsesoprattutto, su sé stesso, affinché sia sempre consapevole,avvertito, percosì dire, prima di tutto del suo modo di stare con il paziente: se troppo vicino,se troppo distante, se particolarmente apprensivo, se eccessivamenteinterventista otroppo interpretativo e saturante , ecc., e poi certo, anche, sucome egli utilizza la tecnica e il sapere di cui dispone.

I nostri giovani colleghi provengono dall’Universitàessendo, tutti, o psicologi o psichiatri. Essi posseggono quindi unsapereuniversitario il quale, se pure costituisce una base fondamentale da cuipartire, tuttavia li pone anchenell’equivoco che più si sa e si conosce,sul piano della teoria e della tecnica, e più ci si potrà sentire garantiti coni propri pazienti, più ci si sentirà al sicuro, nella propria pratica, soprattuttonei confronti delle insidie e degli imprevisti cui ci si sente esposti.

La cultura di oggi, e la diffusione crescente dipratiche psicoterapeutiche comportamentiste, performative,strategico-addestrative, all’interno di una visione della cura della salutementale che si basa sulla iper valutazione delle capacità tecniche operazionalie dellecompetenze degli operatori, favorisce fortemente, nei giovanianalisti in formazione, la costruzione del binomiosapere/bravura e, diconseguenza, contribuisce anche alla idealizzazione delle conoscenze teoriche edelle tecniche a scapito di quelsaper stare nella clinica che, nelnostro campo, è clinica essenzialmente della relazione con il soggetto,relazione da costruire con ogni singolo paziente, uno per uno, a partire dalla singolarità della sua domanda e delle sue istanze, piuttosto che da un modelloprestabilito di salute e di dispositivo di cura applicabile allo stesso modo a chiunque.

Noi dobbiamo allora, come supervisori, e anche comeinsegnanti o formatori, cercare di evitare che nei giovani colleghi il sapereprevalga sul saper fare, la teoria sulla pratica, la tecnica sull’etica.

Tanto più che sappiamo, soprattutto in quantosupervisori, che i giovani finiscono spessoper utilizzare le conoscenze teoriche e tecniche, più che come strumenti per ilpaziente, come strumenti per difendersene.

Il lavoro della supervisione dovrebbe essere allora taleda aiutare il collega a saper lasciare fuori dalla stanza d’analisi il propriosapere universitario per entrarvi invece, come dice Bion,senza memoria esenza desiderio , intendendo per desiderio, non quello soggettivo di ogniterapeuta e che è alla base della nostra motivazione di fondo a costituircicome analisti e a lavorare psicoanaliticamente, ma il desiderio di far andarele cose come noi vorremmo, in base ai nostri modelli, e non come sarebbe piùutile che andassero secondo le prospettive, le istanze, le necessità e ildesiderio di ogni singolo paziente.

Freud è stato chiaro su questo: “noi (psicoanalisti)ci siamo decisamente rifiutati di fare del malato che si mette nelle nostremani in cerca di aiuto una nostra proprietà privata, di decidere il suo destino,di imporgli i nostri ideali e di plasmarlo a nostra immagine e somiglianza perfar piacere a noi stessi. (Vie della terapia psicoanalitica , Opere, vol.9, p. 24, Boringhieri)

Sempre Freud,avendolo appreso dall’isterica ,ci ha insegnato inoltre che la psicoanalisi è la pratica dell’ascolto, piuttostoche del fare. Fu infatti quella straordinaria giovane donna,l’isterica Emmy von N. che, con il suo celebre “non mi tocchi, stia zitto, facciaparlare me” , chiese a Freud di essere ascoltata, e Freud l’ascoltò. Freud capìil discorso dell’isterica e seppe passare dalla posizione dicolui che parla,che impone, che fa alla posizione dicolui che ascolta , inaugurandoin questo modo la nascita della psicoanalisi come pratica dell’ascolto diquello che il paziente ha da dire, e tracciandone anche la via per il metodo eil suo sviluppo.

Per questo ho sempre cercato di trasmettere al collegain supervisione il sentimento che il suo analizzante è il portatore di unadomanda che chiede di essere ascoltata e che il suo stesso sintomo, ciòattraverso cui egli ha dato inizio alla sua analisi, deve essere consideratocome una domanda che va accolta e decifrata, piuttosto che un disturbo daeliminare, come vorrebbero le altre terapie non psicoanalitiche.

Oggi, invece, molti dei giovani che seguiamo in supervisionesembranoossessionati più dal risolvere che dall’ascoltare, più dalfare che dallasciar fare , più dalsapere che dalsaperci fare ,più dal "che dico? " che dal "che dice? "

Insomma, la mia attenzione, la mia preoccupazione, insupervisione vanno costantemente nella direzione di cercare di aiutare e il giovaneanalista a passare, dalla posizione di chi ritiene di dover badare al fare e atrovare la tecnica più efficace, a quella di colui che ascolta, come seppe fareFreud con l’isterica.

Vorrei concludere azzardando, se posso permettermi forseun po’ provocatoriamente, che, in fondo, vedo il supervisore come quella figurache, se da una parte si costituisce come punto di riferimento per il suo collega,dall’altra lo è nella misura in cui sa disporsi, per così dire,dalla partedell’isterica , dalla parte dell’analizzante, ricordando che la terapiapsicoanalitica è sempre una terapia dalla parte del paziente, per cui il suocompito è quello di saper far giungere al collega che ha in supervisione lastessa istanza che Emmy fece giungere a Freud:aspetti, stia zitto, non sipreoccupi di fare questo o quello col suo analizzante, lo ascolti!

Come si fa una supervisione?

Le componenti di una supervisione efficace La supervisione comprende le fasi di osservazione, valutazione e feedback, e facilita l'autovalutazione del supervisionato, l'acquisizione di conoscenze e competenze attraverso la formazione, il modellamento (modeling), e il problem solving reciproco.

Chi può fare supervisione?

La supervisione può rivolgersi a un'equipe che lavora all'interno dello stesso servizio oppure a professionisti singoli, coinvolti a vario titolo nei servizi alla persona.

Come diventare supervisore psicoterapia?

Requisiti: Certificazione come terapeuta EFT da almeno un anno (possono essere fatte eccezioni per supervisori esperti o per necessità locali, la valutazione spetta ai Trainer locali) 10 ore di mentorship da due Supervisori / Trainer EFT certificati. Completamento di un corso di supervisione per psicoterapia.

Quando lo psicologo va in supervisione?

Può essere chiesto da aziende, case-famiglia, ospedali, strutture di accoglienza (e via dicendo) quando il personale ha la necessità di affrontare le difficoltà che si presentano con gli utenti o con i colleghi e che non riescono a essere superate con le proprie risorse.